«Cultura»
e «Coltura» delle lingue
È sempre un piacere leggere e
ascoltare Corrado Augias. Non solo per la sua capacità narratoria.
È un piacere ascoltare il suo
italiano dal lessico «ricco» ma senza nessun
esibizionismo intellettuale:
semplicemente una persona
particolarmente colta che sa ancora parlare la lingua italiana, nella sua
varietà e nella sua ricchezza lessicale.
E poi ho sempre apprezzato il suo
ateismo rispettoso: pur essendo ateo non si è mai espresso in maniera offensiva
nei confronti dei credenti - almeno che io ricordi -. Al contrario, ha sempre
avuto un approccio a tutto campo, anche nello studio delle Religioni, che ha
sempre trattato con l'onestà intellettuale di un vero Storico, riportando i
fatti, i punti di vista, le versioni, senza mai ostentare la sua personale
posizione.
Diversamente da quanto fanno alcuni
sedicenti intellettuali e sedicenti atei, che offendono pubblicamente i
credenti per manifestare platealmente il loro punto di vista - seppur legittimo;
legittimo il punto di vista, non le offese -.
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Tornando alla lingua italiana, è sempre più difficile leggere e ascoltare
intellettuali con una tale padronanza della lingua.
Tra i pochi che mi vengono in mente
c'è il giovane Diego Fusaro, poco meno che trentottenne - filosofo,
saggista e docente universitario - già da diversi anni sulla scena
intellettuale italiana.
Ho avuto modo di ascoltarlo
direttamente in occasione di un incontro pubblico qui nella nostra città: ricordo
un’assiepata platea di ventenni e di trentenni - e anche liceali -, tutti
incuriositi e attenti al suo particolare e ricercato uso della lingua italiana,
al di là del fatto che comprendessero a pieno - o meno - ciò che diceva.
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In entrambi gli esempi, sia per il «veterano» Augias sia per il più giovane Fusaro - a
prescindere dal fatto che la mia opinione possa essere concorde o discorde su
ciò che dicono e scrivono -, apprezzo il fatto che siano tra i pochi che
riescano ancora a comunicarci la ricchezza e la varietà lessicale della lingua
italiana.
E allo stesso tempo, però, mi rendo
conto della situazione «agonizzante» della nostra lingua
nazionale:
non solo per la povertà del nostro linguaggio a tutti i livelli sociali (a
cominciare dal sottoscritto) - usiamo una ridottissima percentuale del lessico
disponibile - ma anche per l'incapacità di assimilare i neologismi (nuove
parole) che arrivano dalle altre lingue.
Recentemente riflettevo sul
neologismo «gentrificazione»,
uno dei pochissimi casi di termini forestieri che - in tempi
relativamente recenti - siamo riusciti ad assimilare in maniera «attiva».
Per la gran parte, invece, buio totale.
Peggio ancora:
da qualche anno a questa parte stiamo sostituendo termini che già usavamo nella lingua italiana, rimpiazzandoli con forestierismi (prevalentemente anglo-sassoni).
Mi risparmio l'elenco perché sarebbe veramente
lungo e penoso.
In pratica, stiamo passando da una «lingua»
a uno «slang»
- ecco appunto! - ossia un gergo particolare, un insieme di espressioni, in
questo caso non classificabile con precisione: non è italiano ma neanche
inglese.
È qualcosa di diverso, di
indefinibile: da alcuni anni si parla di «italiese»; ma questo sostantivo inquadra soltanto una parte del
problema.
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E non parliamo poi dei dialetti e delle lingue d'Italia (napoletano, siciliano,
lombardo e altre): se si coltivano ancora è soprattutto grazie all'opera
meritevole di tanti scrittori, poeti, compagnie teatrali - e ora anche Musica, Cinema e
TV - e tante altre iniziative spontanee che hanno come obiettivo la «coltura» dei dialetti in qualità
di patrimonio immateriale delle nostre Comunità locali.
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Le cause di tutto ciò sono molte.
Tra i tanti colpevoli: alcune
categorie «snob»
di intellettuali e opinionisti da «salotti» televisivi e/o accademici, che ancora non riescono a
chiudere i conti con il passato.
Ricordo fin da bambino le discussioni mediatiche sul tema.
- Creiamo un Ministero, o un Dipartimento a monitoraggio della lingua
italiana (come accade normalmente in altri paesi democratici)?
- No!!!!! Non sia mai!
Fascisti!!!!!
- Difendiamo i dialetti, coltiviamoli, riscopriamo i toponimi dialettali?
Insegniamoli insieme alla letteratura italiana?
- No!!!!! Non sia mai!
Ignoranti! Campanilisti! Provincialotti!!!!!
Ebbene, se coltivare la vitalità della propria lingua nazionale significa
essere «fascisti», se coltivare e
rivalutare i dialetti locali significa essere «provinciali»: fate pure!
Vuol dire che - in questo caso - si potranno considerare come complimenti, tenuto
conto del valore della causa.
E vuol dire anche, però, che la mentalità
dominante è rimasta indietro di almeno 75 anni.
Ancora non c’è l’obiettività del
pensiero indipendente, libero da pregiudizi ideologici.
Mauro
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Sulla stessa tematica, vedi anche:
https://pianetalaquila.blogspot.com/2020/09/i-dialetti-lingue-vive-fortunatamente.html