lunedì 29 marzo 2021

«Cultura» e «Coltura» delle lingue

 

«Cultura» e «Coltura» delle lingue

 

 

È sempre un piacere leggere e ascoltare Corrado Augias. Non solo per la sua capacità narratoria.

È un piacere ascoltare il suo italiano dal lessico «ricco» ma senza nessun esibizionismo intellettuale:

semplicemente una persona particolarmente colta che sa ancora parlare la lingua italiana, nella sua varietà e nella sua ricchezza lessicale.

E poi ho sempre apprezzato il suo ateismo rispettoso: pur essendo ateo non si è mai espresso in maniera offensiva nei confronti dei credenti - almeno che io ricordi -. Al contrario, ha sempre avuto un approccio a tutto campo, anche nello studio delle Religioni, che ha sempre trattato con l'onestà intellettuale di un vero Storico, riportando i fatti, i punti di vista, le versioni, senza mai ostentare la sua personale posizione.

Diversamente da quanto fanno alcuni sedicenti intellettuali e sedicenti atei, che offendono pubblicamente i credenti per manifestare platealmente il loro punto di vista - seppur legittimo; legittimo il punto di vista, non le offese -.

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Tornando alla lingua italiana, è sempre più difficile leggere e ascoltare intellettuali con una tale padronanza della lingua.

Tra i pochi che mi vengono in mente c'è il giovane Diego Fusaro, poco meno che trentottenne - filosofo, saggista e docente universitario - già da diversi anni sulla scena intellettuale italiana.

Ho avuto modo di ascoltarlo direttamente in occasione di un incontro pubblico qui nella nostra città: ricordo un’assiepata platea di ventenni e di trentenni - e anche liceali -, tutti incuriositi e attenti al suo particolare e ricercato uso della lingua italiana, al di là del fatto che comprendessero a pieno - o meno - ciò che diceva.

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In entrambi gli esempi, sia per il
«veterano» Augias sia per il più giovane Fusaro - a prescindere dal fatto che la mia opinione possa essere concorde o discorde su ciò che dicono e scrivono -, apprezzo il fatto che siano tra i pochi che riescano ancora a comunicarci la ricchezza e la varietà lessicale della lingua italiana.

E allo stesso tempo, però, mi rendo conto della situazione «agonizzante» della nostra lingua nazionale:
non solo per la povertà del nostro linguaggio a tutti i livelli sociali (a cominciare dal sottoscritto) - usiamo una ridottissima percentuale del lessico disponibile - ma anche per l'incapacità di assimilare i neologismi (nuove parole) che arrivano dalle altre lingue.

Recentemente riflettevo sul neologismo «gentrificazione», uno dei pochissimi casi di termini forestieri che - in tempi relativamente recenti - siamo riusciti ad assimilare in maniera «attiva».


Per la gran parte, invece, buio totale.

 


Peggio ancora:

da qualche anno a questa parte stiamo sostituendo termini che già usavamo nella lingua italiana, rimpiazzandoli con forestierismi (prevalentemente anglo-sassoni). 

Mi risparmio l'elenco perché sarebbe veramente lungo e penoso.

In pratica, stiamo passando da una «lingua» a uno «slang» - ecco appunto! - ossia un gergo particolare, un insieme di espressioni, in questo caso non classificabile con precisione: non è italiano ma neanche inglese.

È qualcosa di diverso, di indefinibile: da alcuni anni si parla di «italiese»; ma questo sostantivo inquadra soltanto una parte del problema.

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E non parliamo poi dei dialetti e delle lingue d'Italia (napoletano, siciliano, lombardo e altre): se si coltivano ancora è soprattutto grazie all'opera meritevole di tanti scrittori, poeti, compagnie teatrali - e ora anche Musica, Cinema e TV - e tante altre iniziative spontanee che hanno come obiettivo la 
«coltura» dei dialetti in qualità di patrimonio immateriale delle nostre Comunità locali.

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Le cause di tutto ciò sono molte.

Tra i tanti colpevoli: alcune categorie «snob» di intellettuali e opinionisti da «salotti» televisivi e/o accademici, che ancora non riescono a chiudere i conti con il passato.



Ricordo fin da bambino le discussioni mediatiche sul tema.



- Creiamo un Ministero, o un Dipartimento a monitoraggio della lingua italiana (come accade normalmente in altri paesi democratici)?

- No!!!!! Non sia mai! Fascisti!!!!!



- Difendiamo i dialetti, coltiviamoli, riscopriamo i toponimi dialettali? Insegniamoli insieme alla letteratura italiana?

- No!!!!! Non sia mai! Ignoranti! Campanilisti! Provincialotti!!!!!

 


Ebbene, se coltivare la vitalità della propria lingua nazionale significa essere «fascisti», se coltivare e rivalutare i dialetti locali significa essere «provinciali»: fate pure!


Vuol dire che - in questo caso - si potranno considerare come complimenti, tenuto conto del valore della causa.

E vuol dire anche, però, che la mentalità dominante è rimasta indietro di almeno 75 anni.

Ancora non c’è l’obiettività del pensiero indipendente, libero da pregiudizi ideologici.

 

 

Mauro

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Sulla stessa tematica, vedi anche:

https://pianetalaquila.blogspot.com/2020/09/i-dialetti-lingue-vive-fortunatamente.html