13 dicembre 2015
Eleganza felina!
Una "micetta" benedettina-scoppitana fa la guardia a un'antica chiesa monastica!
Nota. I tre colori indicano che si tratta di una femmina (come mi ha fatto osservare l'amico Sandro Zecca).
A cura di MAURO ROSATI. Uno spazio dedicato soprattutto alla scoperta (o riscoperta) delle curiosità storiche e artistiche sulla città di L'AQUILA e dintorni! E poi le novità e gli appuntamenti offerti dalla nostra città! E - perchè no? - ogni tanto qualche riflessione sul quotidiano in generale!
13 dicembre 2015
Eleganza felina!
Una "micetta" benedettina-scoppitana fa la guardia a un'antica chiesa monastica!
Nota. I tre colori indicano che si tratta di una femmina (come mi ha fatto osservare l'amico Sandro Zecca).
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Vincent van Gogh, Natura morta: vaso con rose, olio su tela (71.0 x 90.0 cm. Saint-Rémy, Maggio 1890), National Gallery of Art, Washington. (Fonte immagine: Pagina Facebook "Libriantichionline") |
Un dipinto di Vincent van Gogh.
Un "semplice" vaso di rose,
tra l’altro semi-appassite. Eppure quanta bellezza in quelle pennellate!
Un soggetto che in Storia dell'Arte
si definisce tecnicamente "natura morta", ossia la rappresentazione
di oggetti "inanimati": un vaso di fiori, un canestro di frutta, dei
libri su un tavolo, e così via.
Eppure quanta vita in quella natura morta del vaso di rose del maestro olandese!
Una vita che nasce sicuramente anche da quelle pennellate dinamiche e dalla
verità dei colori, che ci fa quasi “toccare” quei fiori con lo sguardo.
Vincent van Gogh, un animo tormentato e sofferente, una personalità complessa.
Così ce lo raccontano le sue biografie.
Eppure, anche se in quei suoi dipinti
esprimesse degli stati d'animo personali che non possiamo capire, ci ha
lasciato molte opere che spesso trasmettono serenità, intimità,
"calore": una chiesa, la veduta di un campo, un cielo stellato, una
strada di città illuminata dalle luci di un Caffè, degli ulivi, e tanti altri
capolavori.
Ovviamente, tra i suoi capolavori ci
sono anche opere più “crude”, a carattere più strettamente sociale.
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L'eredità artistica del maestro olandese ci fa riflettere sulla complessità di
quel grande Universo che è la mente umana: conoscenze, comportamenti,
sentimenti, istinto, razionalità.
Un Universo che pare abbia ancora molto
da essere esplorato.
Noi esseri umani, soprattutto contemporanei, abbiamo spesso la tendenza a
"etichettare" e “catalogare” qualsiasi cosa, a dividere tutto in
cassetti o compartimenti stagni.
Questo possiamo farlo forse con gli
oggetti di casa o in un ufficio.
Ma è difficile poterlo fare con la
varietà dei comportamenti umani: come definire, ad esempio, il carattere di una
persona in modo esatto; possiamo forse individuare una "linea" di
carattere, ma con tante sfumature, un po' proprio come quelle pennellate di van
Gogh.
Così come è difficile - e
personalmente penso sia anche sbagliato - dividere in compartimenti la vastità
delle conoscenze umane, delle discipline, delle materie. Lo si può fare nello
schema di un orario scolastico o accademico, però semplicemente per praticità organizzativa.
Ma, credo, non possiamo farlo nella
vita di tutti i giorni: come stabilire un confine netto tra la Filosofia e la
Matematica? Tra la Storia dell'Arte e la Chimica dei materiali (pietre, colori,
ecc...)? Tra la Botanica e uno splendido acquerello con soggetto botanico? Tra le
Scritture Sacre, la Mitologia e l'Astronomia? Tra la Musica e la Matematica? Un
musicista è anche un matematico, come sembrano dimostrare numerose ricerche
neuroscientifiche.
Quindi come stabilire un confine esatto
tra i tanti Saperi dell'essere umano?
Personalmente non ne sarei capace!
Vedo la conoscenza umana proprio come
quel dipinto di Van Gogh da cui siamo partiti: tante tonalità di colore
differenti ma allo stesso tempo sfumate, non distinguibili nettamente l'una
dall'altra, con i colori "freddi" resi "tiepidi" dalle
tonalità più calde - e viceversa -.
E pensiamo che la conoscenza umana è
a sua volta "piccola" rispetto a quanto c'è da studiare e da
conoscere dell’Universo in generale.
Ecco perché mi dispiace quando ancora si parla di "Scienza" e
"Umanesimo" come due mondi separati; quando si parla delle materie
umanistiche come qualcosa di "vecchio", da archiviare, da togliere dai
programmi scolastici per evitare “inutili perdite di tempo”.
Non è così! Almeno per come la vedo
io!
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Concentriamoci innanzitutto proprio
sulla parola "Scienza": al giorno d'oggi usiamo questo termine per
indicare soltanto le Scienze Naturali e quelle affini.
Torniamo invece all'etimologia,
all'origine latina di "Scienza".
Dal latino “Scientia”,
un sostantivo che indica un mondo molto più vasto: tutta la conoscenza umana,
quella naturalistica e quella umanistica, quella teorica e quella pratica;
spesso le “Scienze”, le conoscenze, partono proprio dall’osservazione empirica,
semplice, quotidiana che poi si cerca di spiegare e diventa teoria per essere
contenuta nei libri.
Che bellezza in quella metafora che
paragona la scrittura all’aratura dei campi e alla semina!
Proprio questa è la funzione della Scrittura:
seminare qualcosa su un foglio bianco in modo che tutti la possano raccogliere
una volta matura, cioè una volta che quel foglio è stato riempito. Il
“raccolto” consiste nella lettura critica e nell’apprendimento, che a sua volta
stimola nuove idee e nuove riflessioni; e quindi, nuove “semine” in nuovi
campi.
Allora mi fa piacere sentire e
leggere, da qualche anno, di “Scienze Umane”, “Scienze Matematiche”, “Scienze
Naturali”, e così via.
Tutto il sapere umano è “Scienza”, e
ogni Scienza ha bisogno dell’altra per completarsi! Sono, cioè, reciprocamente
complementari.
Se le Scienze Naturali studiano e ci
insegnano i meccanismi dell’Universo, le Scienze Umane ci insegnano l’Etica, la
capacità di ragionare, arricchiscono il nostro linguaggio e facilitano la
nostra “confidenza” con la parola scritta e con la parola “orale”.
La Filosofia (incluse le Scienze
Religiose) ci "allena" al ragionamento, alla riflessione.
La Letteratura ci educa alla capacità
di espressione scritta e orale, ci educa alla sensibilità, arricchisce il
patrimonio del nostro vocabolario personale, a tutto vantaggio del nostro
linguaggio. Letteratura italiana, Letteratura dialettale, Letteratura
straniera. “Letteratura” nell’accezione più ampia del termine: ci metto anche
il Teatro, il Cinema, l’Opera, la Musica, anch’essi espressioni letterarie (e anche
matematiche; ad esempio la Poesia con la sua metrica, e - come abbiamo già visto - la Musica).
E la Storia,
“Maestra di Vita” con i suoi esempi e i suoi insegnamenti,
fondamentali per comprendere il presente e per non commettere sempre gli stessi
errori.
Il Greco e il Latino, anche oggi
fondamenti del linguaggio delle Scienze tecnico-sperimentali oltre che di
quelle umanistiche. Due lingue antiche che spesso, nella vita di tutti i
giorni, ci aiutano per esempio a capire il significato di una parola, anche
senza avere un vocabolario a portata di mano (cartaceo o digitale che sia).
E l’Archeologia, che va “a braccetto”
sia con le Scienze Umane sia con quelle Tecniche, Naturali e affini. La ricerca
archeologica: uno studio “materiale” del passato che ci dà risposte utili per
capire il presente e per pianificare le cose con più chiarezza e
consapevolezza.
E poi, un altro campo della
conoscenza umana che personalmente ritengo degno di essere tutelato pienamente
dalla Legge e considerato materia didattica: il Dialetto.
Il Dialetto
ci tramanda la cultura (materiale e immateriale) e la saggezza dei nostri
antenati, quegli uomini di Scienza che magari non sapevano né leggere né
scrivere ma che conoscevano molto delle leggi della Natura perché le imparavano
dal lavoro di tutti i giorni: nei campi, in mare, tra i boschi, nei pascoli.
Anche grazie a loro le Scienze accademiche sono progredite nel corso dei
secoli. Donne e Uomini che non sapevano leggere o scrivere, o lo facevano a
malapena, ma che erano capaci di prevedere il meteo, sapevano su quali terreni
si poteva o non si poteva costruire, sapevano a che profondità interrare un
nuovo albero messo a dimora. E tanti altri sarebbero gli esempi possibili.
Conoscenze che provenivano dall’esperienza e dall’osservazione diretta delle
cose, delle quali si faceva tesoro e diventavano patrimonio da tramandare di
generazione in generazione, finché poi qualcuno finalmente non lo metteva per
iscritto.
A titolo di esempio, mi vengono in
mente due brevi testimonianze personali che ho raccolto negli anni.
1 - Un mio zio paterno, tra i molti
ricordi di quando era ragazzino, me ne ha raccontato uno particolarmente
curioso, anche se normale per chi conosce l’intelligenza animale: nei mesi
autunnali e invernali, quando si dovevano riportare i bovini al riparo della
stalla (come altri animali), prima che scendesse la notte con il suo gelo, a
volte accadeva qualcosa di apparentemente insolito. Questi animali si fermavano all’ingresso
della stalla (quasi “si piantavano”) e iniziavano a scuotere la testa con un movimento
ripetitivo verso l’alto, come se “annusassero” l’aria; e quasi certamente era
proprio così, annusavano l’aria. Qualche ora dopo, puntualmente arrivava la
neve.
Ecco, quindi, che nella cultura
dell’esperienza, quel fenomeno apparentemente semplice, valeva come una
previsione meteorologica.
Nota.
Non serve elencare i tantissimi proverbi dialettali a tema meteorologico, dalle
tante realtà locali italiane: tutti nascevano da una osservazione scientifica
ripetuta che, con il tempo, acquisiva il valore della “regola”. Ancora oggi, se
prestiamo attenzione, possiamo ad esempio capire se stia per arrivare un
temporale estivo quando vediamo le nuvole in una certa direzione, diversa da
luogo a luogo; anche noi umani, se annusiamo l’aria possiamo percepire l’“odore
della neve”, probabilmente più in ritardo rispetto agli altri animali.
Come sicuramente molti tra voi
lettori, anch’io, fin dall’infanzia ho imparato spontaneamente a riconoscere
l’“odore della neve” in arrivo, portato dai venti di
Tramontana, di Aquilone, di Bora (quest'ultima collegata al Buran
della pianura sarmatica; ma anche il vento di Borea citato ad esempio nel libro V dell’Odissea, durante il naufragio della zattera di Ulisse che si conclude con l’arrivo sulle coste
dell’isola dei Feaci:
«Ma Atena […] Destò solo il
rapido Borea, e l’onde gli ruppe davanti, / sicché tra i Feaci amanti del remo
arrivasse / il divino Odisseo, sfuggendo la morte e le Chere.»).
2 - Poi mi viene in mente un racconto
personale del signor Giuseppe “Peppino”, aquilano: ricorda quando da bambino vedeva
suo nonno piantare un nuovo albero da frutto, aiutato dai suoi figli (il padre
e gli zii del signor Peppino). Il nonno non aveva manuali che gli indicassero
la profondità “giusta” della buca o la qualità del terreno più adatto; “semplicemente”
si sedeva al bordo della buca e con i piedi nudi sul fondo dello scavo
“assaggiava” il terreno finché non diceva «adesso va bene!», ossia quando
sentiva che il terreno aveva la giusta umidità. Quel concetto di “giusto” gli
derivava dall’esperienza di una vita, e magari gli era stato a sua volta tramandato.
Un po’ come il “quanto basta” (q.b.)
nell’arte del cucinare.
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E così, tornando al discorso più
generale, ci potremmo chiedere:
- si può essere veramente buoni
Storici dell’Arte se non si conoscono almeno un po’ la natura dei materiali, il
contesto storico di un’opera, la Filosofia e le Scritture Sacre?
- Si può essere veramente buoni
Architetti e buoni Ingegneri se non si conoscono almeno un po’ la cultura di un
territorio, il concetto di “paesaggio”, il concetto di “contesto”? Il Paesaggio,
semplificando, non è altro che la “somma” di un Territorio con la Cultura di
chi lo abita; ossia il Territorio più uno "Sguardo" (inteso come il modo di
vedere un certo Territorio da parte di una certa Cultura). E chi, se non la
Storia (Storia dell’Arte compresa), le Scienze Demo-Etno-Antropologiche - e
affini - possono aiutare a comprendere un “contesto paesaggistico”?
- Si può essere veramente buoni Medici se non si
hanno anche princìpi etici ed empatìa?
E chi, meglio della Filosofia (nel
senso più ampio), può aiutare a formare un’etica professionale?
Mi fermo qui con gli esempi che potrebbero
essere davvero tanti.
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Per concludere, allora: rifiutiamo la
conoscenza concepita come “compartimenti isolati”, dove ogni disciplina sta per
conto suo, come in un mobile di casa con tanti cassetti separati!
Certo, ognuno di noi avrà la sua
predilezione e la sua specializzazione; non si può essere “tuttologi” (“omniscienti”,
se preferite un sinonimo più raffinato).
Nessuno, però, ci può impedire di
allargare la nostra mente verso altre “Scienze”, che molto spesso si sfiorano o
si intrecciano l’una con l’altra. Nessuno ci impedisce di essere curiosi di
conoscenza e di far viaggiare la nostra mente verso tanti campi del Sapere
umano, di confrontarci con chi ha “specializzazioni” diverse dalle nostre per
poi accorgerci di quante cose abbiamo in comune, di fare collegamenti.
Non dobbiamo porre limiti alla “coltivazione”
della nostra Mente, del nostro Pensiero; è una “coltivazione” che deve
proseguire sempre, possibilmente senza limiti di età.
D’altra parte, che cos’è la Cultura?
Se prendiamo il termine alla lettera, è proprio “coltivazione”; dal latino
“colere” (= coltivare). Poi, appunto, ognuno di noi avrà le sue
coltivazioni predilette; chi coltiverà una cosa, chi un’altra. Ma non mettiamo
recinti al nostro “campo” da coltivare e, se ci va, proviamo anche nuove
coltivazioni, e magari allarghiamo il nostro “podere” intellettivo.
La Mente è un terreno di proprietà
nostra - idealmente senza recinto - per cui coltiviamola come meglio crediamo
ma sempre in direzione del “più” e non del “meno”. Proprio come farebbe un buon
contadino, finché la coltiviamo manteniamo lontane le “erbacce” infestanti
dell’Ignoranza; e l’Ignoranza con la “I” maiuscola non dipende dal titolo di
studio ma da una mente poco coltivata, dove può attecchire l’erbaccia
dell’ottusità.
Si può essere anche analfabeti ma si
può avere tanto da insegnare oltre che da imparare - e viceversa -.
Si può essere anche analfabeti ma
avere una mente aperta e predisposta a nuove coltivazioni - e viceversa -.
L’analfabetismo in senso classico non
è una scelta e quindi nulla toglie al potenziale intellettivo di una persona.
Insomma, non mettiamo limiti
all’Universo complesso della mente umana e non dimentichiamo che anche gli
altri animali possono avere menti complesse e aperte, magari molto più di
quanto potremmo immaginare!
Mauro Rosati
![]() |
(Anno 1935; fonte immagine: M.P. RENZETTI, L. MARRA, F. CAPALDI, Aquila in cartolina, One Group Edizioni, L'Aquila 2010) |
In questo breve racconto che segue ho messo insieme frammenti di memorie orali, raccolte negli anni da testimoni diretti e indiretti, su uno degli eventi più tragici della nostra città nel Novecento.
Si tratta di
testimonianze raccolte “a memoria” durante delle chiacchierate e quindi mi
scuso con i lettori per eventuali passaggi che dovessero apparire più “vaghi”.
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La mattina dell’08 dicembre 2006 mi
stavo recando al Convento di San Giuliano per andare al lavoro; ero uno
studente universitario e, oltre che per i miei studi, già da molto mi
interessava la Storia: mi piaceva leggerla sui libri ma anche sentirla
raccontare da chi l’ha vissuta direttamente.
Al tempo delle Scuole Medie la
professoressa di Scienze Umane ci aveva indirizzato attivamente alla conoscenza
del nostro territorio e alla ricerca storica, sia orale sia documentaria.
Quella mattina dell’08 dicembre 2006, a San Giuliano c’era anche il signor Spartaco - classe 1925 - mio vicino di pianerottolo, persona alla mano, semplice e spiritosa (nell’accezione positiva di questi termini). Lui e sua moglie Lisa erano stati tra le prime persone che conobbi appena trasferitomi a L’Aquila da adolescente con la mia famiglia. Fin dal primo giorno ci accolsero con tanta disponibilità, generosità e ospitalità, da vicini di casa “di una volta” (o “de 'na 'ote”, se preferiamo).
Forse, per questo, con il tempo li
considerai un po’ come dei "terzi nonni", sempre nel senso positivo dell'espressione.
Torniamo di nuovo all’08 dicembre
2006. Era una mattinata limpida di sole, di quel sole invernale cristallino e gradevole che
regala tepore e una luce particolare e suggestiva; le ultime nebbie della
nottata si andavano diradando nelle zone più basse della città, in particolare
verso il fiume Aterno.
Tra una parola e l’altra, si finì con
il ricordare l’anniversario del bombardamento alleato del 1943, nella zona
della Stazione ferroviaria. Non ricordo esattamente come si arrivò al discorso,
ma ricordo sufficientemente il racconto del signor Spartaco.
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- Era ’na bella jornata, propitu come oggi!
- esordì, riferendosi all’08 dicembre 1943.
Il signor Spartaco aveva 18 anni e,
insieme ad altri ragazzi, era stato obbligato dai militari nazisti a prestare
lavoro quotidiano come una sorta di “garzone-prigioniero”. Eravamo nei mesi
dell’occupazione nazista della nostra città e del nostro territorio, ossia quel
periodo compreso tra l’08 settembre 1943 e il 13 giugno 1944, il giorno della
liberazione dell’Aquila.
In quei mesi il signor Spartaco era
stato fermato dai Nazisti insieme ad altri ragazzi, più o meno della sua fascia
di età. I giovani e i giovanissimi uomini, infatti, erano particolarmente sospettati di essere
“fiancheggiatori” dei partigiani, se non addirittura partigiani essi stessi.
Dopo il “fermo” era stato condotto
presso il carcere allestito dagli occupanti nei locali dell’abbazia di
Collemaggio, a destra della Basilica. Lì vennero perquisiti, chiusi in celle
fredde, e poi rilasciati quando era stata accertata la loro “estraneità”.
Per cui vennero presi come manodopera
per i lavori manuali di ordinaria amministrazione.
La mattina dell’08 dicembre 1943, il
signor Spartaco si trovava presso la Caserma “Edmondo De Amicis” (il complesso,
oggi abbandonato, che si vede a destra guardando la facciata della Basilica di
San Bernardino).
Mentre era lì, con altra gente che
passava lungo la strada antistante, iniziò a sentire il rumore di aerei che
arrivavano dal lato nord. Il signor Spartaco ricordava di aver visto gli aerei
provenire dalla direzione di San Giuliano, prima una formazione aerea e poi una
seconda.
Gli aerei erano distanti e, al
luccichìo del sole, lui e gli altri che si erano fermati a guardare, videro
delle piccole cose che iniziavano a cadere dagli aerei. Molte persone
esclamarono: - i fuglittini! I fuglittini! – (i “fogliettini”,
con riferimento ai famosi volantini lanciati di tanto in tanto dagli Alleati
per incitare la popolazione civile alla resistenza e alla ribellione contro
l’esercito nazista occupante).
Neanche il tempo di pronunciare quelle parole - qualche secondo - e si sentirono dei boati prima dalla direzione di Piazza d’Armi (o Piazza d'Arme) e poi sempre più frequenti verso Villa Gioia, la Rivera e, in generale, dalla zona del fiume ai piedi di Monte Luco. A quel punto la gente aveva capito che non era il solito lancio di volantini ma un bombardamento vero e proprio condotto dagli Alleati. Tra gli obiettivi principali c’erano la Stazione ferroviaria e lo stabilimento della Zecca, ma - pare - anche l’area di Piazza d’Armi dove i Nazisti avevano allestito un piccolo “aeroporto” (una pista) per i velivoli leggeri (in ogni caso, Piazza d’Armi – o Piazza d’Arme – doveva essere probabilmente un obiettivo secondario).
Dai racconti della gente che erano
iniziati a circolare in città, si veniva a sapere che le prime bombe erano
cadute appunto su Piazza d’Armi, poi su Villa Gioia - dove all’epoca c’era la caserma
“Vincenzo De Rosa” -, e poi sempre più numerose sulla zona della Stazione e della Zecca (i due principali obiettivi, come già scritto).
Vennero coinvolte anche abitazioni civili tra la Rivera e il fiume Aterno,
vicine alla zona interessata.
Nota. La caserma “Vincenzo De Rosa” (18° Reggimento di Artiglieria) si trovava principalmente nel sito dove oggi sorgono il Palazzo di Giustizia e gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate: come “testimone” di quella caserma è rimasta oggi la facciata di uno dei fabbricati adibito a scuderia, restaurato insieme alle Mura negli anni recenti; si tratta di quella grande facciata - che a prima vista si può scambiare per una chiesa - che vediamo all’altezza dell’incrocio tra Via Rocco Carabba e Viale XXV Aprile (il viale che scende alla Stazione).
Fino al sisma del 2009, esistevano altre due testimonianze della caserma "De Rosa": una gradevole palazzina subito all’inizio di Via Francesco Filomusi Guelfi, dietro il Tribunale, dove adesso c’è uno dei parcheggi per il Palazzo di Giustizia; la palazzina, costruita a uso residenza militare, è stata demolita nei primi anni successivi al terremoto del 2009. Un’altra testimonianza era invece una garitta un po' “neogotica” (tardo-ottocentesca) costruita sulla base di un bastione delle Mura medievali davanti al Tribunale, in prossimità dell’incrocio tra Viale XXV Aprile e Via XX Settembre; era ben distinguibile dal bastione sottostante perché costruita con una tecnica muraria diversa. Questa garitta, che somigliava un po’ alla parte alta (la cella campanaria) del campanile di San Silvestro, è crollata a causa del sisma del 2009 ma non è stata ricostruita durante il restauro delle Mura.
Lo stabilimento della Zecca - invece
- si trovava poco più a ovest della stazione, vicino alla confluenza del
torrente Vetojo nel fiume Aterno, dove oggi c’è lo stabilimento ex sede
dell’azienda Alenia, danneggiato dal sisma del 2009 e attualmente in stato di
abbandono.
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Le ultime bombe caddero ai piedi di
Monte Luco, sganciate dagli aerei per non riportare il “peso” fino alla base e
per risparmiare quindi il carburante.
Dall’altura di San Bernardino, dove
era il signor Spartaco, si vedeva bene la nuvola di fumo che saliva dalla zona
più bombardata.
Il signor Spartaco, all'epoca, viveva in Via Giorgetto, una delle belle stradine che si trovano tra le gradinate e vicoli caratteristici, che salgono da Via Fontesecco verso il Colle dell'Addolorata ("Via Giorgetto" collega "Via Buccio di Ranallo" con "Vico dell'Ortica").
In quegli stessi istanti, altri due
testimoni si salvarono casualmente.
La signora Lisa, futura moglie del
signor Spartaco, era con altre ragazze a lavare il bucato nella zona delle
Novantanove Cannelle; alcune “schegge” delle esplosioni schizzarono fin lì e
anche più lontano, come si sa da tante altre testimonianze. La signora Lisa rimase
fortunatamente illesa ma, come tanti altri, dovette andare a scavare tra le
macerie di alcune abitazioni per cercare parenti, conoscenti, amici.
Anche la signora Maria, sorella della
signora Lisa, si salvò per pochi minuti. Era in casa poco prima del bombardamento
e le chiesero di andare a prendere l’acqua alla fonte con un recipiente di
vetro, come si faceva ancora in tutte le case senza acqua corrente; e a
svolgere queste mansioni si mandavano ovviamente bambini e ragazzini, i più
giovani, i più agili - e sempre con la raccomandazione severa di fare
attenzione a non rompere il preziosissimo vetro (tanti anziani narrano questo ricordo della paura di rompere il vetro; anziani di oggi, bambini di allora) -. Mentre la signora Maria,
allora giovanissima, era a prendere l’acqua, caddero le bombe proprio vicino a dove abitava anche lei.
Inutile descrivere le scene
successive.
La signora Maria mi raccontò questo
frammento di storia personale poche settimane dopo il terremoto del 2009: alla
fine del racconto esclamò - e so’ due! -; intendeva dire che si era
salvata due volte, prima dal bombardamento e poi dal terremoto.
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Tante furono le vittime di quel
bombardamento, civili e militari, in particolare molte lavoratrici e diversi lavoratori
presso lo stabilimento della Zecca, abitanti della zona della Rivera,
ferrovieri, militari nazisti ma anche militari anglo-americani prigionieri,
che erano chiusi nei vagoni fermi alla Stazione ferroviaria: uno dei paradossi
delle guerre; bombardieri alleati che avevano ucciso i loro stessi soldati a
terra.
La cronaca storica di quell’08
dicembre 1943 è ricca di articoli e di bibliografia (libri, ricerche) oltre a
tante altre testimonianze dirette. Per cui non mi dilungo ulteriormente e mi
avvio a concludere questo ricordo, riportando altri due frammenti di memoria
orale.
L’08 dicembre 1943, il signor
Giacinto - oggi quasi novantenne - era poco più di un bambino. Pochi anni fa
raccontava che nei giorni immediatamente successivi al bombardamento, passò per
il Viale che scendeva alla Stazione (l’odierno Viale XXV Aprile) insieme a una
donna adulta sua familiare (non ricordo se una zia). A distanza di tanti
decenni, ricordava in modo indelebile che un po’ ovunque si vedeva ancora del
fumo, e soprattutto ricorda un odore di carne bruciata; inutile scendere nel
dettaglio e ipotizzare da dove probabilmente provenisse quell’odore.
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Lo “strascico” di quel bombardamento rimase
non solo nella memoria di chi l’aveva vissuto, ma per diversi anni anche alla
vista di tutti i giorni.
Il signor Paolo, classe 1947, ricorda
che nella sua prima infanzia, quando con una sua familiare adulta si recava a
piedi da Via XX Settembre alla Rivera, percorreva una strada a curve in
discesa; dovrebbe trattarsi dell’odierna Via di Poggio Santa Maria, che
tutt’oggi conduce fino a Borgo Rivera.
Il signor Paolo ricorda chiaramente,
al lato di questa strada, una croce collocata a terra: quella croce segnalava
alla gente la posizione di una bomba aerea inesplosa non ancora “bonificata”; eravamo più o meno nel periodo tra la fine degli Anni ’40 e l’inizio degli Anni
’50 del Novecento.
Diverse furono le "bonifiche" successive alla Guerra.
È cronaca più “recente”, la
grande operazione di “bonifica” dei binari della Stazione effettuata negli
Anni ’80 e di cui esistono molte attestazioni storiche, sia grafiche sia
fotografiche.
Ancora alla fine del Novecento, ogni
tanto spuntava qualche bomba inesplosa, soprattutto durante gli scavi per la
costruzione di palazzine nei dintorni della zona bombardata.
Nota. L’immagine
storica (1935) che avete visto in alto è una veduta, da est verso ovest, dell’area
della Stazione ferroviaria e dello stabilimento della Zecca, prima del
bombardamento del 1943.
Non ho inserito la didascalia all’inizio
per non “anticipare” visivamente il racconto, anche se molti di voi avranno
sicuramente riconosciuto subito la veduta.
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E così, cercando di
legare fra loro questi spezzoni di memorie, ho pensato che fosse importante
riportarli per iscritto - nella forma di un unico breve racconto -.
Sia nel ricordo di quella
mattina di dicembre del 1943, sia nella volontà di “agganciare” questi racconti - raccolti
in momenti diversi - a tante altre testimonianze dell’epoca.
Oggi il Piazzale della
Stazione – così lo chiamiamo comunemente – è intitolato proprio alla memoria di
quei Caduti: “Piazzale Caduti 8 dicembre 1943”.
Mauro Rosati
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Sulla cronaca storica di quel bombardamento, suggerisco la lettura di questo articolo (2013) del prof. Walter Cavalieri:
https://www.ilcentro.it/l-aquila/settanta-anni-fa-le-bombe-sulla-stazione-1.1263689
![]() |
( Fonte immagine: https://www.santodelgiorno.it/san-nicola-di-mira/ ) |
San Nicola / San Nicolò (o San Niccolò) / Ághios Nikólaos / Sankt Nikolaus / Saint Nicholas / Sinter Claes
Dalle Province d'Italia ai Paesi Bassi!
Tante varianti linguistiche per indicare San Nicola vescovo di Myra (in Italia più noto come San Nicola di Bari).
Il Santo "dei doni", un Santo tra i più popolari in tante aree geografiche. Il "Babbo Natale" più antico, potremmo dire. :-)
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La chiesa di San Nicola d'Anza
Premesso che nel calendario esistono anche altri San Nicola, nella nostra città c'è la chiesa di San Nicola d'Anza (San Nicolò di Sant'Anza) che dovrebbe essere intitolata proprio al San Nicola più popolare: è la chiesa degli abitanti di Sant'Anza dentro le mura. Tra le chiese più antiche della città; oggi non è officiata ma è lo stesso di notevole interesse storico-architettonico, bisognosa e meritevole di recupero (ad esempio come spazio socio-culturale a beneficio del quartiere circostante).
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Iconografia di base
Nelle forme più classiche, oltre alla veste da vescovo, i principali attributi iconografici di San Nicola sono:
- tre sfere d'oro (o tre frutti) che regge con una mano e che richiamano la "leggenda della dote alle fanciulle";
- e poi, i tre fanciulli in basso, che compaiono in molte sue rappresentazioni.
Questi attributi, in particolare le tre sfere d'oro, aiutano a non confonderlo con altri Santi vescovi.
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Qualche articolo di spunto, tra i tanti, per conoscere meglio la figura di San Nicola.
La leggenda di San Nicola
https://www.google.it/amp/s/www.focus.it/amp/cultura/storia/come-nata-la-leggenda-di-babbo-natale
San Nicola nella Pittura
http://www.basilicasannicola.it/page.php?id_cat=1&id_sottocat1=42&titolo=Beato%20angelico
Agiografia di San Nicola
("Agiografia" è un vocabolo che indica la biografia di un Santo)
http://www.santiebeati.it/dettaglio/30300
Mauro Rosati
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(Fonte immagine: «Finanza Semplice») |
«Il
PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della
loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la
bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza
del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto
né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di
noi.» (dal «Discorso sul PIL» di Robert “Bob” Kennedy, 18/03/1968)
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Un passo dal cosiddetto «Discorso
sul PIL» di Robert Kennedy. Gli altri passaggi sono riportati in fondo alla
pagina.
Ovviamente questo
passaggio va interpretato e bisogna saperlo leggere nella sua essenza.
Non vuol dire che non dobbiamo
produrre ricchezza né migliorare le nostre condizioni economiche, vuol dire
invece una cosa più importante: la produzione della ricchezza va messa su una
bilancia a due piatti insieme al benessere fisico e psichico della persona.
Finché le due cose sono in equilibrio
un sistema economico è produttivo e sano.
Se invece l'equilibrio si sbilancia
troppo e soltanto verso la ricerca “forsennata” della produttività e del
denaro, compromettendo la felicità e la salute psico-fisica degli individui e
della società, allora dobbiamo "rallentare" o "fermarci" un
attimo.
A quel punto, meglio un pochino più
"poveri" ma nel benessere personale: per “più poveri” non si intende
diventare disoccupati e affamati; vuol dire invece un viaggio in meno,
un'automobile in meno e magari più piccola, riparare le cose anziché buttarle,
uno “sfizio” extra in meno (e tanti altri possibili esempi).
Insomma, piccole rinunce che però ci riportano alla giusta dimensione umana:
lavorare meno ore ma lavorare tutti, qualche straordinario in meno e più tempo
da dedicare alle proprie famiglie; tutto quello che ci fa stare meglio come
esseri umani, liberandoci da sovraccarichi eccessivi che ci possono sfinire.
Allora ecco che il PIL è importante ma non può essere l'unica unità di misura
del benessere di una nazione; la corsa sfrenata alla continua crescita del PIL
non deve diventare "nevrosi collettiva".
Quando è necessario, meglio qualche punto in meno di PIL e salvaguardare la
salute e il benessere dei cittadini.
Anche perché è fisiologico: il
mercato non può crescere sempre, ce lo insegna la storia; ci sono momenti in
cui la produzione arriva alla saturazione e l'offerta diventa troppa rispetto
alla domanda. E quindi, ciclicamente, si arriva sempre a un punto di crisi;
vale a dire: quando il PIL si ferma a “riprendere il fiato” o addirittura fa
qualche passo indietro.
Un sistema economico in perenne crescita credo che non esista: ci sono
rallentamenti, soste e poi ripartenze.
Tra l’altro, fin dagli anni Settanta
del XX secolo si parla anche di FIL
(Felicità Interna Lorda) e diversi economisti contemporanei sostengono
questo approccio: la “Felicità”, intesa come benessere psico-fisico
complessivo, è fondamentale per poter godere dei benefici di un buon PIL (Prodotto
Interno Lordo).
Mauro
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P.S.. Di seguito tutti i passaggi del
«Discorso sul PIL» di Robert Kennedy:
«Non troveremo mai un fine per la
nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del
benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo
spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese
sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche
l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per
sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le
serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che
cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza
per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di
napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare
la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti
che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle
loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto
della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della
gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia
o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o
l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei
nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la
nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra
conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura
tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere
vissuta.
Può dirci tutto
sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.»