lunedì 28 settembre 2020

«Aternia» - Gioco di ucronìa

Fig. 1 - Targhe italiane storiche (1901-1927)
(Fonte: "scatTO -  il fotoblog della Città di Torino")

 
Fig. 2 - Piazzaforte di Pescara (XIX secolo), divisa dal fiume: "Pescara Citeriore", in basso, e "Pescara Ulteriore", in alto.
(Fonte immagine: Wikipedia; Immagine: Di Giuseppe Quieti - "Pescara antica città" - book, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76573866 )


Fig. 3 - Aprutii Ulterioris Descriptio (Mappa dell'Abruzzo Ulteriore, 1590; particolare)


Porto Maurizio.

Ho sentito per la prima volta questo nome circa 10-12 anni fa da un frate francescano del convento di San Giuliano a L’Aquila. Mi stava parlando di San Leonardo da Porto Maurizio, missionario francescano diffusore in Italia delle Viae Crucis, e più precisamente mi stava illustrando la “Croce di San Leonardo da Porto Maurizio”, della quale avevamo davanti una riproduzione in materiale povero (→ lascio alla vostra curiosità l’approfondimento sul Santo e sulla sua vita).


Diversi anni dopo, durante una ricerca sulla storia delle targhe automobilistiche italiane e relative Province, mi sono imbattuto nella Provincia di Porto Maurizio istituita nel 1860. Fino a quell'anno, il territorio di Porto Maurizio era appartenuto alla Provincia di Nizza (Regno di Sardegna); dopo la cessione di Nizza dal Regno di Sardegna (futura Italia) alla Francia, il Circondario al quale apparteneva Porto Maurizio - che era rimasto al Regno di Sardegna - divenne «provvisoriamente» Provincia di Porto Maurizio (Regio Decreto 4176/1860 del Regno di Sardegna). La cessione di Nizza alla Francia causò l’“Esodo nizzardo”, ossia un esilio di massa dei nizzardi che volevano mantenere la cittadinanza sabauda. Nizza era anche la città natale di Giuseppe Garibaldi che fu oppositore della cessione dalla quale, comprensibilmente, rimase fortemente deluso. All'"Esodo" del 1860 seguirono poi i "Vespri nizzardi", dall'08 al 10 febbraio del 1871.


→ Nota. Dal 1905 al 1927 le targhe automobilistiche italiane non riportavano la sigla della provincia ma un numero che identificava il capoluogo, seguito da una sequenza numerica che invece indicava l’ordine di immatricolazione delle automobili in ciascuna provincia; il numero che indicava il capoluogo veniva assegnato in ordine alfabetico, ad esempio: la nostra città, all'epoca “Aquila” (senza l’articolo) veniva identificata con il numero “3” (dopo Alessandria e Ancona); Porto Maurizio aveva il numero “50”. In precedenza, dal 1901 al 1905, le targhe riportavano il nome intero del capoluogo seguito dalla sequenza numerica di immatricolazione (Fig. 1). 

(Vedi anche la monografia: 

https://www.targheitaliane.it/monografie/targhe_automobilistiche_del_primo_periodo.pdf


Oggi però la Provincia di Porto Maurizio non esiste.

A quel punto, quindi, volevo capire dove si trovasse questa città di Porto Maurizio e così sono arrivato a un’altra storia.

Porto Maurizio - come suggeriva già il toponimo “Porto” - è una località costiera della Liguria, sulla “Riviera di Ponente”.

Nel 1923, il Comune di Porto Maurizio venne unito al Comune di Oneglia - insieme ad altri nove Comuni -, formando una città e un nuovo Comune più grande (Regio Decreto n. 2360/1923). Per non fare “torto” a nessuno dei due principali ex Comuni, si decise di dare alla città il nome del torrente che divide Oneglia da Porto Maurizio: il torrente si chiama “Impero”. Per cui, da quel momento, nacquero il Comune e la Provincia di “Imperia” che ereditò quella di Porto Maurizio; per l’esattezza il nuovo nome della Provincia venne stabilito 19 giorni dopo l’unificazione dei Comuni (Regio Decreto 2491/1923).


Questa storia vi ricorda qualcosa? A me ne ricorda una simile ma con un finale “leggermente” diverso.

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Spostiamoci di qualche centinaio di chilometri a sud-est di Imperia e andiamo avanti di quattro anni, al 1927.


Siamo negli Abruzzi, alla foce del principale fiume della Regione. Sulle rive di questo fiume esistono due Comuni: da un lato Castellammare Adriatico, in Provincia di Teramo (l’Abruzzo Ulteriore Primo); dall'altro Pescara, in Provincia di Chieti (l’Abruzzo Citeriore). Il fiume che divide i due Comuni si chiama Aterno-Pescara; semplicemente Aterno per gli antichi (Aternus).

→ Curiosità. Questo fiume nasce nel nostro Appennino, si unisce poi con il Pescara fino a sfociare nel Mare Adriatico. Secondo la tradizione, Ceteo (o Cetteo) - vescovo di Amiterno (Amiternum) - venne gettato nel fiume Aterno con una mola al collo, per ordine di un capo longobardo che lo aveva accusato - a torto - di sospetto tradimento; il corpo di Ceteo seguì la corrente del fiume fino a fermarsi alla sua foce, dove lo trovò un pescatore del luogo che lo chiamò Peregrinus ("Viandante", "Straniero", "Forestiero", "Sconosciuto", poiché non ne conosceva il nome) e lo seppellì. In seguito a un miracolo attribuito al Santo, il vescovo locale gli diede migliore sepoltura. San Cetteo di Amiterno è oggi patrono e titolare della Cattedrale della città che sorge alla foce di questo fiume. ←


Come ad Imperia nel 1923, anche in questo caso, nel 1927, si decise di unificare i due Comuni in uno più grande; e anche qui nacquero un nuovo Comune e una nuova Provincia (Regio Decreto Legge n. 1/1927).

E a questo punto la storia “si divide” da quella di Imperia. Per una questione di “equilibrio” tra i due ex Comuni, la città teoricamente avrebbe dovuto prendere un terzo nome o almeno unire i due nomi (cosa però più difficile).

Allora, pensando a questa vicenda, il primo nome che mi è venuto in mente è stato “Aternia”, sull’idea di “Imperia”. Tra l’altro, il motto che compare sul gonfalone comunale di Pescara inizia con «Haec est Civitas Aterni […]» («Questa è la Città di Aterno [...]»), con riferimento al nome dell’insediamento romano: Aternum od Ostia Aterni (in lingua latina il toponimo “Ostia” indica la foce di un fiume e, per estensione, un “Porto”).

In questa storia invece, prevalse il nome di “Pescara” che “assorbì” quello di Castellammare Adriatico.

Non conosco nel dettaglio tutte le motivazioni che portarono a questa scelta, ma è difficile negare che dovettero avere un certo “peso” il carisma e lo spessore culturale (e politico) del “Vate” Gabriele D’Annunzio, nato nel comune di Pescara nel 1863 (quindi a sud del fiume); anche se da qualche anno si era “ritirato a vita privata”. Per dovere di cronaca storica va anche considerato, però, che Castellammare Adriatico, fino all'inizio dell’Ottocento, faceva parte della giurisdizione della cittadella fortificata di Pescara, divisa in due dal fiume (Fig. 2; "Pescara Citeriore" e "Pescara Ulteriore"); intorno al 1806-1807, a seguito della riforma amministrativa napoleonica, Castellammare fu separato da Pescara e riconosciuto come comune autonomo dell’Abruzzo Ulteriore Primo (Provincia di Teramo). Quindi va considerato anche il maggior “peso” storico del toponimo Pescara (Piscaria, Piscara).

→ Nota. La stessa riforma istituiva le Province al posto dei Giustizierati e sanciva la distinzione tra la Provincia di Abruzzo Ulteriore I (Teramo) e la Provincia di Abruzzo Ulteriore II (Aquila). Precedentemente i due territori erano identificati insieme, semplicemente come “Abruzzo Ulteriore”, con distinzione geografica rispetto all'"Abruzzo Citeriore" (il confine correva principalmente lungo il fiume Aterno). ←


→ Curiosità. Su una mappa dell'Abruzzo Ulteriore datata 1590 (Fig. 3), è riportata una lunga striscia di bosco che si estende dalla fortezza di Pescara - lato nord (Pescara Ulteriore) - fino alla foce del fiume Saline.

Il bosco è indicato come "Silva lentisci" (letteralmente la "Selva di lentisco").

Sulla stessa mappa, lungo il bosco tra l'Aterno e il Saline, è rappresentato un colle a ridosso della "Silva": in cima a questo colle (o Monte) è indicato un piccolo centro abitato con il nome di Monte "silvano"; l’attributo di "silvano" è riportato con la lettera minuscola, separato rispetto a “Monte”: insomma, "il Monte della selva".
Nella mitologia romana, "Silvano", con l'iniziale maiuscola, è il nome-aggettivo proprio che indica il dio pagano dei boschi (selve) e delle campagne (associato a Fauno nei culti pubblici); più in generale, si definiscono "divinità silvane" tutte quelle che nell'antichità erano venerate in associazione ai boschi e alle zone rurali.

Lungo il tratto di litorale dove c'era il bosco di lentisco ("Silva lentisci") oggi sorgono in sequenza, da sud a nord: Pescara nord, Marina di Montesilvano, Marina di Città Sant'Angelo. ←

 

Il Regio Decreto che nel 1927 istituì il nuovo Comune di Pescara sembra far capire che non si trattò di una unificazione “alla pari” ma di un “accorpamento” (o ri-accorpamento) del Comune di Castellammare Adriatico al Comune di Pescara, come se si riconoscesse - quindi - una prevalenza storica del toponimo “Pescara” (RegioDecreto Legge n. 1/1927).

Lo stesso Decreto istituiva anche la nuova Provincia di Pescara, che fu creata con l’acquisizione di Comuni appartenenti ai “Tre Abruzzi” storici: principalmente dalle Province di Chieti (Abruzzo Citeriore) e di Teramo (Abruzzo Ulteriore Primo), e in parte minore anche dalla Provincia di Aquila (Abruzzo Ulteriore Secondo).


Castellammare Adriatico, però, è un nome che ha un suo “fascino”.

Per questo, quando mi trovo a parlare con colleghi o conoscenti originari di Pescara, faccio sempre questa domanda “scherzosa” per “stuzzicare” un po’ di sano campanilismo culturale: - sei di Pescara o di Castellammare Adriatico? -

Tutti gli interessati che ho “interrogato” finora mi hanno risposto, raccogliendo il “gioco”:

- Castellammare Adriatico -.

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A questo punto, lasciamo stare le motivazioni che hanno portato alla scelta del nome "Pescara" e facciamo un “gioco di ucronia”.

 

Ucronìa: che cosa vuol dire questa parola? È un termine nuovo (neologismo) che si basa sulla lingua greca ma che è arrivato nella nostra lingua nazionale tramite il francese, nel XIX secolo.

Letteralmente potremmo tradurlo come “utopia del tempo” (con “tempo” inteso come "Storia") oppure “altro tempo” (con “altro” nel senso di “alternativo”).

In parole più semplici significa: come sarebbe andata la Storia se…? Cosa sarebbe accaduto se…? Si immagina cioè come sarebbe potuta andare la Storia se una certa vicenda si fosse svolta in modo diverso da quello effettivo.

Due esempi “forti” dall'Ottocento e dal Novecento: cosa sarebbe accaduto se Napoleone Bonaparte avesse vinto la battaglia di Waterloo? Cosa sarebbe accaduto se l’Asse avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale? E così via.

Si cerca in pratica di ragionare su eventi non verificatisi, le cui possibili ipotesi e interpretazioni sarebbero però tante, visto che le vicende storiche sono il frutto di molte variabili.

Oltre agli studi storici scientifici, l’ucronia è anche oggetto di letteratura, di divulgazione e di cinematografia.

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E adesso veniamo al gioco di ucronia che vi propongo:

come avrebbe potuto chiamarsi “Pescara” se nel 1927 avessimo scelto un terzo nome?

Aternia? Ostia sull’Aterno? Ostia negli Abruzzi? Ostia degli Abruzzi? Ostia Adriatica? Civita di Aterno? Porto Aterno? Adriapoli?


Provate a divertirvi con le vostre conoscenze personali e con la vostra fantasia!

L’invito a questo gioco è rivolto a tutti gli eventuali lettori di questa pagina, pescaresi e non pescaresi!

Potete scrivere il vostro nome “immaginario” in questo mini-questionario.



Buon divertimento! 😊

 

Mauro Rosati

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P.s.: “Abruzzo” e “Abruzzi”. In questa pagina ho parlato spesso di “Abruzzi”.

Facciamo una riflessione a parte: la nostra Regione, pur essendo piccola territorialmente e demograficamente, è molto varia; è una Regione formata da diverse “sotto-regioni” e da quattro Province. Questi territori sono a volte molto differenti fra loro: per cultura, per storia, per dialetti, per architettura, per paesaggi. E quando scrivo “differenti” lo intendo come una ricchezza.

Allora perché non ripristinare ufficialmente il nome “Abruzzi”? Non per motivi “nostalgici” ma perché, a mio parere personale, sarebbe un nome più corretto, sia per ragioni storiche sia per l’attualità.

Ho notato di persona che anche molti turisti stranieri, soprattutto i Tedeschi, usano dire tutt'oggi “Abruzzi”; e non solo quelli più anziani. È un caso? Non lo so, ma penso che il nome di “Abruzzi” identificherebbe meglio le varietà della nostra Regione, e quindi la sua ricchezza.

Pensiamoci su! E in questo caso "non per gioco".

sabato 26 settembre 2020

26 settembre 1997 - Ore 11,40

 

Assisi; la navata della Basilica Superiore di San Francesco dopo il crollo della volta "dei Dottori della Chiesa" e di una parte delle due adiacenti.
(Fonte immagine: Wikipedia; CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1688295 )

26 settembre 1997

Ricordo bene quella mattina. Ero a scuola, a Pettino (zona futura multisala), a poca distanza da Palazzo "Silone", sede della Regione Abruzzi.

Da una decina di giorni avevo iniziato il primo anno delle Scuole Superiori. Già da un po' eravamo rientrati in aula dalla ricreazione. Eravamo a lezione con la prof. di Italiano.

A un certo punto sento un rumore sordo ma costante che proveniva dall'esterno, come un elicottero che passa ad una certa distanza. Subito dopo quel rumore alcuni miei compagni iniziano a dire che sentivano il terremoto. Ovviamente non posso dire che il rumore esterno fosse legato al terremoto, considerata anche la distanza dall'epicentro (circa 100 km); potrebbe anche essere stata una semplice coincidenza.

Non mi accorgo subito della scossa; mi fermo, e dopo un po' percepisco una sensazione strana e disorientante: il pavimento sembrava diventato "di gomma", una specie di elastico, e si muoveva lentamente oscillando a strattoni; sembrava un po' come stare su una barca o su una zattera ormeggiata che si muove leggermente assecondando la corrente dell'acqua. Avevo l'orologio al polso: lo guardo; lo schermo segnava le 11:42 (andava avanti di un paio di minuti).

Tutto questo accadeva in pochi secondi e intanto l'oscillazione si fermò.

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Pensai subito che il terremoto doveva essere avvenuto tra Umbria e Marche perché qualche ora prima, al giornale radio delle 06:30 che seguivo ogni mattina prima di uscire di casa, avevo ascoltato che nella nottata, alle 02:33, si era verificata una forte scossa di terremoto al confine tra Umbria e Marche (tra Assisi, Nocera Umbra, Sellano, Colfiorito, Serravalle di Chienti, Foligno, Preci e diversi altri paesi). La scossa di quella notte (Magnitudo momento 5.7; Fonte: INGV, CPTI15) era stata interpretata come l'evento principale e aveva provocato due vittime, alcuni feriti e molte lesioni, anche nella Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi.

La scossa principale (Magnitudo momento 6.0; Fonte: INGV, CPTI15) avvenne invece alle 11:40 e fu più forte di quella della notte (oltre il doppio in termini di potenza).

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Due ore dopo, tra le 13:30 e le 14:00, mentre ero nei pressi della Fontana Luminosa ad aspettare l'autobus per tornare al paese, i miei compagni di viaggio (studenti e lavoratori) confermavano la notizia e la localizzazione del terremoto. Quasi tutti lo avevano avvertito e ognuno raccontava come lo aveva sentito e dove si trovasse alle 11:40. Purtroppo c'erano state altre vittime, nonostante gli edifici fossero già sgombri dopo la scossa della notte; tra le vittime c'erano, per esempio, tecnici che erano al lavoro per effettuare i primi rilievi dei danni dopo l'evento della notte.

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Alle 20:00, come ogni sera, mi collego per seguire il TG5 (all'epoca non avevo ancora "divorziato" con i TG e con una certa informazione in generale; questo però è un altro discorso).
Inizia il TG. Nessuna sigla, nessun titolo, nessuna parola di commento: l'edizione si apre con un video impressionante. Una telecamera aveva ripreso la scossa delle 11:40 dentro la Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi: si vede una parte della volta che crolla quasi subito durante la scossa e poi un grande polverone che oscura le immagini; il crollo uccide le quattro persone che erano lì sotto, frati e tecnici che si trovavano al centro della navata. Da quanto si è detto nei mesi e negli anni successivi, pare che la causa principale di quel crollo, oltre alle lesioni della scossa della notte, fosse stata una ristrutturazione "disgraziata" effettuata molti anni prima e che aveva appesantito molto le volte della Basilica.

Poi una ripresa all'esterno della Basilica: si vede un fotografo uscire dal portale completamente bianco di polvere, impietrito dalla paura; si era salvato dal crollo perché era distante alcuni metri dal punto del crollo. Un'altra immagine impressionante: quell'uomo sembrava una statua, sia per la polvere che lo ricopriva sia per lo spavento; era un fotografo che stava documentando i primi sopralluoghi. Anni dopo, da un documentario, ho saputo che altri tecnici si sono salvati da quel crollo perché erano nel transetto della Basilica e mi pare si siano riparati in Sacrestia: uno di loro raccontò che all'inizio dello scossone aveva visto la volta della Basilica letteralmente sollevarsi e ripiombare sui muri della chiesa. 

Altra immagine ancora: sempre alle 11:40 di quella mattina, in un altro paese della zona colpita, si vede un uomo all'esterno che fa appena in tempo ad allontanarsi da una casa dietro di lui (forse già lesionata) che si sbriciolava in pochi secondi.

Dopo queste immagini tremende (almeno queste sono quelle che ricordo), si apre l'inquadratura sullo studio del TG e il conduttore inizia a raccontare la cronaca di quella bruttissima giornata.

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Il giorno seguente, su un nostro giornale locale, lessi che la scossa della mattina precedente aveva provocato lesioni lievi in alcuni edifici e in particolare delle lesioni nella Basilica di Collemaggio. Non saprei in quale punto della Basilica fossero quelle lesioni e chissà se non fossero proprio nella zona del transetto che è poi crollata durante il sisma del 2009.

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Mi impressiona sempre il ricordo di quel terremoto del 1997, sia per le immagini sia perché conosco Assisi, e anche perché si tratta del primo grave terremoto in Italia che io ricordi direttamente.

Undici anni e mezzo dopo, nel 2009, mentre il terremoto sbalzava e scuoteva la mia casa e la mia città, tra i molti pensieri che mi passavano per la mente in quei secondi di paura, c'era anche questo: ecco, questo è quello che devono aver provato gli Umbri e i Marchigiani nel 1997; questo è quello che devono aver provato gli Aquilani dei secoli precedenti. Questi pensieri mi passavano spontaneamente nella mente in frazioni di secondo, tra le 03:32 e le 03:33 del 06 aprile 2009, quando il sisma mi aveva svegliato dal sonno profondo, "bloccandomi" sul letto, immobilizzato dalla paura.

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Nell'aprile del 2001, oltre tre anni e mezzo dopo quel 26 settembre 1997, sono tornato per la prima volta ad Assisi dopo il terremoto (c'ero stato da bambino alcuni anni prima del sisma). Il borgo complessivamente si presentava bene anche perché, ad eccezione del crollo nella Basilica francescana, i danni nella cittadina erano stati molto meno gravi rispetto ad altri Comuni più vicini all'epicentro. C'era qualche ponteggio di ristrutturazione ma niente di particolarmente vistoso.

La Basilica era stata riparata e riaperta al pubblico nel 1999 e, ovviamente, non potevo non andare a vederla. Allo stesso tempo però mi faceva impressione entrare lì dentro: erano ancora molto vicine le immagini spaventose del 1997; sembrava un po' come entrare nel luogo di un "delitto".
Appena entrato, per prima cosa guardai verso le volte. La muratura della porzione crollata era stata ricostruita ma ovviamente non c'erano gli affreschi, che erano stati raccolti in frammenti e avrebbero richiesto più tempo per essere ricomposti nelle porzioni che era possibile recuperare.
Camminare sul pavimento della navata mi dava la sensazione quasi di una profanazione, ricordando la tragedia provocata proprio lì dal terremoto di tre anni e mezzo prima.

Poi, pian piano, iniziai a spostare l'attenzione sugli splendidi affreschi, opera di vari maestri, che narrano le Storie della Vita di San Francesco e rappresentano anche altri importanti soggetti religiosi.

Quella visita alla Basilica di San Francesco servì a riprendere confidenza con quel luogo dopo le immagini spaventose del 1997.


Mauro Rosati

martedì 22 settembre 2020

Aequinoctium Autumni

Aequinoctium

 

Aequinoctium - Aequa Nox

12d - 12n / Iter: E>S>W


Oggi inizia l'Autunno astronomico; quest'anno con un "giorno di anticipo" perché anno bisestile.


Sole allo "Zenith" sull'Equatore.

Il dì e la notte hanno la stessa durata mentre il sole percorre un itinerario approssimativo da Est (dove sorge) ad Ovest (W; dove tramonta), passando ovviamente per il Sud (dove raggiunge il punto più alto della giornata).


Nella nostra città dell'Aquila, considerando come riferimento la latitudine approssimativa della Torre di Palazzo, il sole raggiunge oggi un'"altezza" massima di 47° 38' 46" 

(vedi anche https://pianetalaquila.blogspot.com/2018/09/bentornato-autunno.html?m=1 ).


Da alcuni giorni, con le temperature più miti, i passeri hanno ripreso a cantare mentre da qualche settimana le piante hanno iniziato la "seconda primavera" vegetativa, con nuovi "getti", dopo il "rallentamento" estivo e prima del riposo invernale.


Per chi gradisse, concludo in musica con un breve estratto dell'"Autunno" di Antonio Vivaldi: https://youtu.be/WA8EJQOqbdo


Mauro

sabato 19 settembre 2020

I dialetti? Lingue vive (fortunatamente) - L'Italiano? Un po' meno (in questo momento)

Mappa delle lingue d'Italia
(Fonte immagine: Wikipedia; Di Mikima - File:Linguistic_map_of_Italy.png, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47107644 )

 

La mia riflessione, più generale, prende spunto dal seguente articolo:
(Personalmente aggiungerei all'elenco anche "struppiare / struppiat'"; rovinare / rovinato, dallo spagnolo castigliano "estropear / estropeado").
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I dialetti - le nostre lingue locali - erano, e in gran parte lo sono ancora, delle lingue vive che nel tempo hanno saputo assimilare termini nuovi da lingue forestiere e sono riuscite a farli propri; un'evoluzione continua, tanto che ancora oggi la maggior parte di essi riesce ad elaborare anche termini nuovi (neologismi), in maniera seria o scherzosa, ma comunque in modo attivo. Per questo, cerchiamo tutti di continuare a coltivare queste nostre lingue locali, le nostre ricchezze immateriali; ci sono tanti modi: facciamolo con il cinema, con la musica, con il teatro, con la poesia e anche, semplicemente, con una chiacchierata in famiglia o tra amici! Non vergogniamocene, facciamone il nostro vanto, imparando a utilizzare regolarmente i dialetti accanto alla nostra lingua ufficiale nazionale!

E, perché no? Divertiamoci a imparare qualcosa anche dai dialetti diversi dal nostro!

L'italiano, invece, la nostra lingua ufficiale nazionale, da qualche decennio sta diventando di fatto una "lingua morta". Una lingua che ormai acquisisce passivamente termini stranieri ma non li assimila, non riesce a farli propri: un po' come se un organismo ingoiasse pezzi di cibo senza masticarli e senza riuscire a digerirli, senza quindi assimilarne gli elementi energetici e nutritivi.
Questo è diventata oggi la lingua italiana: una lingua che ingoia "pezzi" di lingue straniere ma senza farli propri. Inutile fare l'elenco soltanto di questi ultimi anni, sarebbe lungo.
Peggio ancora, la lingua italiana oltre che una "lingua morta" è anche in regressione: ha iniziato a utilizzare vocaboli stranieri anche dove prima utilizzava termini propri (provate, per esempio, a seguire una telecronaca calcistica); la lingua italiana di oggi usa forestierismi in modo improprio, spesso con significato diverso rispetto alla lingua di origine (tipo l'"italiese").
E quel che è ancora più grave, a cominciare dalla Pubblica Amministrazione, è che spesso l'uso di questi termini di importazione viene fatto per un semplice (e vanitoso) sfoggio "intellettuale" fine a se stesso, oppure per confondere volutamente le idee di chi legge o ascolta (a questo punto preferirei il "latinorum" del don Abbondio manzoniano, almeno si tratterebbe pur sempre della lingua-base da cui deriva la nostra nazionale).
In realtà questo sfoggio di forestierismi non ha niente a che fare con la cultura e con l'intelletto. Allora perché lo facciamo? Per provincialismo? Per complessi di inferiorità nazionali? Per scarso senso critico? Per pigrizia? O per semplice abitudine?
Non saprei con certezza.
Una cosa però è sicura: basta che il nuovo vocabolo venga lanciato da un qualsiasi canale di comunicazione (influente ovviamente), e quasi tutti, a prescindere dal titolo di studio, iniziamo a utilizzarlo senza il minimo spirito critico, senza neanche provare ad assimilarlo o a cercare un possibile corrispettivo nella lingua italiana.

Una lingua viva, invece, si arricchisce con parole straniere ma assimilandole, adattandole, facendole proprie; così faceva la lingua italiana fino a qualche decennio fa e così, fortunatamente, accade ancora oggi per la maggior parte delle nostre lingue locali.



Mauro Rosati


P.s.: per chi fosse curioso, dal 2015, nell'ambito dell'Accademia della Crusca è nato il gruppo di lavoro "Incipit" che, con comunicati stampa periodici, denuncia l'abuso di neologismi stranieri e suggerisce le possibili alternative in lingua italiana ( https://accademiadellacrusca.it/…/la-nascita-del-grupp…/6347 ).

venerdì 18 settembre 2020

"Nieuw Amsterdam"

Pianta (1660) di Amsterdam in Nieuw NeederLands ("Amsterdam nella Nuova Olanda"), o Nieuw Amsterdam
(Fonte immagine: Wikipedia;
Di Jacques Cortelyou, General Governor of Nieuw Amsterdam at that time. - New York Public Library, Digital Gallery. Digital ID: 54682, Digital Record ID: 118555., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2906662 )


La cittadella fortificata che si vede in questa immagine è il nucleo originario di una delle più famose megalopoli della nostra epoca.

La cittadella fu fondata dagli Olandesi sulla punta di una penisola, in posizione strategica sia per la difesa (era sufficiente soltanto un muro sul lato della terraferma) sia per il commercio.

Una "piccola Venezia" coloniale.


Credo che molti di voi l'abbiano già riconosciuta.

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RISPOSTA


La penisola si chiamava, e si chiama, "Manhattan". Le terre della penisola pare furono comprate dagli Olandesi da una tribù indiana.

Fondata come "Nieuw Amsterdam" (Nuova Amsterdam, appunto) passò successivamente agli Inglesi. Il nome attuale richiama la città inglese di York ("Eboracum" per i Romani antichi).

Quindi New York, forse sarebbe stata chiamata "Eboracum Novum" in lingua latina.


La cittadella fortificata fu fondata nella zona che oggi è chiamata "Lower Manhattan" (Manhattan bassa), nella quale sorge il "World Trade Center" con la "Freedom Tower" (Torre della Libertà).


Oggi le mura della cittadella olandese non ci sono più e al loro posto corre una strada chiamata letteralmente "Via del muro" (Wall Street), nota per la sede della Borsa.


P.s.: da notare il mulino e il fortino.

Le nuove architetture militari sperimentate nella prima metà del Cinquecento (tra cui la nostra Fortezza aquilana), nel Seicento avevano ormai "fatto scuola".

giovedì 17 settembre 2020

San Rocco a L'Aquila (e altre curiosità)

 (Articolo inviato alle redazioni di stampa locale in data 1° settembre 2020)


Fig. 1. L’Aquila - Chiesa di San Marco; facciata (Fonte immagine: Wikipedia - 2016;
Di Pietro - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48624904
)


Fig. 2. L’Aquila - Chiesa di San Marco; il campanile in alto a destra (Foto: Giuseppe D’Annunzio - 2017)


"San Rocco a L'Aquila": non mi riferisco al nome di una chiesa ma a San Rocco "in persona".

 

Nella figura di San Rocco storia e leggenda si intrecciano fra loro; non dimentichiamo però che anche la leggenda si basa sempre su una verità di fatti e quindi va tenuta in dovuta considerazione nella ricerca storica. “Snocciolando” leggende e racconti popolari si può estrarre il “succo” di indizi storici importanti.

Se in questo momento storico leggessimo la biografia (o “agiografia”) di San Rocco, a distanza di circa sette secoli - cambiando contesto e personaggi - sembrerebbe quasi di leggere le cronache dell'Italia di oggi, afflitta dalla piaga della pandemia insieme alla maggior parte del Mondo. All'epoca di San Rocco il morbo si chiamava "peste", oggi ha un altro nome e un'altra natura; la sostanza però è simile.

Ecco perché, quest'anno, la memoria di San Rocco - celebrata il 16 agosto - ha assunto un significato particolare e diverso rispetto al solito.

 

Di San Rocco sappiamo che apparteneva al Terz'Ordine Francescano (T.O.F.) ed era originario di Montpellier (Occitania; Francia). Sui suoi estremi biografici (date di nascita e di morte) ci sono due versioni differenti:

- 1295-1327, la prima versione, quella tradizionale;

- la seconda versione - quella oggi più sostenuta - indica la sua nascita tra il 1345 e il 1350, e la sua morte tra il 1376 e il 1379.

Esistono versioni diverse anche su dove sia morto (Montpellier, Angera, Voghera); è sepolto nella chiesa di Venezia a lui intitolata. Per i dettagli sulla vita del Santo rimando ai numerosi racconti facilmente reperibili, anche in rete.

Di famiglia benestante, San Rocco rinunciò ai suoi beni e si incamminò in pellegrinaggio verso Roma. Nel suo viaggio (di andata e di ritorno) attraversò l'Italia flagellata dalla peste, fermandosi in diverse località (Roma compresa) ad assistere e a curare i contagiati; ben presto gli vennero attribuite guarigioni miracolose, tra cui quella di un cardinale a Roma, e già da vivo acquisì la fama di santità. Tornando da Roma, quando era a Piacenza, anche San Rocco venne contagiato dalla peste riuscendo poi a guarire.

Per questi motivi, tra i tanti attributi iconografici (il cappello, il bastone, la borraccia, il mantello con i simboli del pellegrino, il cane con il pane ai suoi piedi) ce n'è uno “principale” che compare quasi sempre: San Rocco viene rappresentato mentre si scopre una gamba per mostrare una piaga della peste.

E sempre per queste ragioni, nella cultura cristiana popolare San Rocco divenne presto il Santo da celebrare e da invocare particolarmente per la difesa dalle malattie infettive.

Il culto di questo Santo è talmente diffuso e sentito che, ad esempio, dal 1856 San Rocco è uno dei Santi compatroni di Napoli, una delle grandi città di cultura europee e storica capitale.

C'è poi una curiosità “meteorologica”. Prima del disastro climatico in corso da alcuni decenni - ancora fino a 25-30 anni fa - la ricorrenza di San Rocco (16 agosto) rappresentava in genere una "svolta" stagionale, almeno nel nostro Appennino ma credo anche altrove: passata la "canicola" (o "solleone") i temporali si facevano più frequenti, le temperature andavano abbassandosi gradualmente, le giornate erano ancora estive ma diventavano più gradevoli; questo periodo di transizione conduceva pian piano verso l'autunno meteorologico, nell'arco di circa un mese, e senza troppi "sbalzi" di temperatura - né in un senso né nell'altro -.

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Veniamo adesso ai giorni nostri e avviciniamoci al nostro territorio.

Sappiamo più o meno tutti che San Rocco è il patrono del borgo di Piànola, appena fuori le mura della nostra città, sull'altra riva del fiume Aterno. Oltre a San Franco, San Rocco è celebrato anche nel borgo di Assergi (nella Delegazione-“Castello” di Camarda) dove si festeggia il 14 agosto. Sempre nel nostro Contado esistono cappelle intitolate a San Rocco nei borghi di Forcella di Preturo, Pagliare di Sassa, Pescomaggiore e - più lontano - nel borgo di Civitaretenga (L’Aquila; Altopiano di “Navelli-Civitaretenga”). Soltanto per citarne alcune.

Se poi dalla nostra città ci spostiamo verso sud, allontanandoci di alcuni chilometri - direzione Tornimparte - arriviamo a Monte San Rocco, confine naturale e valico autostradale tra il Contado aquilano e l'Alto Cicolano; in particolare, il nome della montagna è legato al vicino paese di Corvaro, di cui San Rocco è patrono insieme a San Francesco d'Assisi, e al quale è intitolata una piccola e storica chiesa-oratorio. Da racconti orali del luogo si apprende che la stessa galleria autostradale - intitolata a San Rocco - oltre che al nome della montagna, si legherebbe a una sorta di "ex voto" per cui gli operai e l'impresa che la realizzarono (1965-1968) vollero onorare San Rocco, poiché lo scavo del traforo non causò nessuna vittima tra i lavoratori; ne seguì una donazione a favore della parrocchia di Corvaro.

 

Ora torniamo a L'Aquila e "atterriamo" in Piazza del Duomo. C'è un San Rocco tra le vie della nostra città che ci "guarda" dall'alto, da una posizione ben visibile, ma di cui non ci accorgiamo quando gli passiamo davanti.

Raggiungiamolo con il percorso più semplice. Da Piazza del Duomo entriamo in Via dell'Indipendenza - la strada che inizia tra il Palazzo della Banca d'Italia e il bel palazzetto Nardis "neomedievale-toscaneggiante" (XX secolo) -.

Alla fine della via si apre uno spazio: siamo in Piazza San Marco; giriamo lo sguardo verso destra e abbiamo davanti a noi la facciata della chiesa di San Marco Evangelista, tra le chiese più antiche e più importanti della città (Fig. 1).

La facciata, così come la vediamo oggi, si presenta come una "fusione" architettonica fra la tradizione aquilana più antica e un elemento “di importazione”, ossia le due "torrette-campanile" che formano nell'insieme una "facciata-campanile".

Sulla torretta in alto a destra si legge «A.JUB. 175[0]» (non sembra visibile lo zero), ossia l'anno del completamento della ristrutturazione della facciata, coincidente con il Giubileo.

I campanili sono stati applicati ai due estremi della facciata, quindi era lì che forse si era concentrato l'intervento principale di ricostruzione; il terremoto del 1703 - è un’ipotesi - aveva probabilmente provocato "le orecchie" agli angoli della facciata che si erano piegati e poi, forse, crollati. Un po' quello che abbiamo visto anche dopo il sisma del 2009.

L'impostazione tradizionale aquilana è riconoscibile dalla lavorazione delle pietre e dalle fasce in pietra rossa che caratterizzano anche altre facciate aquilane delle origini (in particolare del Duecento e del Trecento); i campanili si innestano sulla facciata mediante uno “zoccolo” ciascuno e con delle fasce (lesene) che li legano architettonicamente e visivamente alla parte originale, come se "germogliassero" dalla muratura più antica. Nella parte più originale fa eccezione il finestrone centrale settecentesco, al posto del rosone tradizionale che molto probabilmente esisteva in origine. Sui fianchi della chiesa - soprattutto quello destro - è ben visibile una muratura medievale più antica “a cubetti”, realizzata in “apparecchio aquilano” duecentesco-trecentesco (“opus aquilanum”) mentre in facciata vediamo una lastra - apparentemente altomedievale (prima del 1000) - riutilizzata e murata nel rivestimento (cortina) della muratura.

Al centro della facciata di San Marco, in alto sopra il finestrone, c’era anche un’immagine in pietra della Madonna con il Bambino, datata alla seconda metà del XV secolo e coronata da un “baldacchino” in pietra. Questa immagine è caduta dalla facciata durante il terremoto del 2009 ed è stata recuperata dai Vigili del Fuoco che l’hanno trovata quasi intatta, con alcune piccole rotture riparabili.

[Proposta]. Nel caso fosse andato distrutto, sarebbe importante ricostruire il piccolo baldacchino “a corona” (documentato da foto in rete) che era posizionato sopra l’immagine della Madonna con il Bambino, un dettaglio che la valorizzava.

 

[Riflessione]. Tornando alla facciata di San Marco in generale, esprimo un parere personale: dal mio punto di vista, la "fusione" complessiva sulla facciata è abbastanza ben riuscita; i campanili e lo zoccolo sinistro sono distinguibili per alcune differenze nella qualità della pietra (più “spugnosa”) - e in parte nel taglio - ma allo stesso tempo sono "rispettosi" della parte più antica, poiché utilizzano una tipologia di pietra differente ma che non "stacca" in maniera brusca dal punto di vista del colore. Una "fusione" quindi, un "innesto" distinguibile ma dialogante, e non quell'"appiccico" (o "copia e incolla" se preferite) che si crea quando si applica un elemento nuovo - “di importazione” - senza un raccordo e senza un "dialogo" con quello che già esiste.

 

Torniamo al racconto. Se guardiamo bene i campanili della facciata - magari con l'aiuto di un binocolo - ci accorgiamo che ci sono quattro statue di santi, due per ciascun campanile; ogni statua è “appoggiata” su una mensola ed è coperta da un "baldacchino".

Da sinistra a destra: San Marco Evangelista, titolare della chiesa; San Tussio eremita; San Raniero, vescovo di Forcona; e un Santo senza nome e con la parte della testa mancante. Questo santo senza nome sembra essere proprio San Rocco, riconoscibile dalla postura con cui mostra la gamba destra e dal cane ai suoi piedi con il pane (Fig. 2).

[Proposta]. Sarebbe bello se nel restauro della facciata venisse ricostruita la parte mancante della statua di San Rocco, ovviamente in maniera riconoscibile secondo i principi contemporanei del restauro.

 

A questo punto ci chiediamo: perché San Rocco? Che c'entra con la chiesa di San Marco?

Torniamo alla fondazione della nostra città, e rimaniamo sempre nella zona di San Marco. Siamo nel Quarto di San Giorgio, nel grande locale assegnato agli abitanti del comprensorio di Bagno, cui appartiene anche Piànola.

[Nota]. Storicamente, infatti, il borgo di Piànola fa parte del territorio del “Castello” di Bagno; per "castello" si intende "comprensorio", poiché Bagno è un “nome collettivo” che include tanti borghi. Ecco perché i "bagnesi" e i "pianolesi" condividono in città lo stesso locale, e oggi la chiesa di San Marco riunisce idealmente - in un unico luogo - tutti i borghi di questo “castello”.

[Riflessione]. A proposito di “castelli”, c'è una curiosità che potrebbe interessarci:

nell'ordinamento attuale della Repubblica di San Marino esistono i "Castelli", che corrispondono in sostanza ai “Comuni” della Repubblica Italiana.

Bisogna precisare che l'origine e la strutturazione dei Castelli di San Marino hanno una dinamica diversa dal rapporto Castelli-Città del nostro territorio. Tuttavia - se riflettiamo sulla questione in generale - le Delegazioni del nostro Comune sono "comprensori" che raggruppano più castelli di fondazione: a mio parere, sarebbe storicamente legittimo se le Delegazioni del nostro Comune venissero ufficialmente definite "Castelli"; la cosa avrebbe fondamento storico e valorizzerebbe questi distretti che formano il Comune dell'Aquila, nell'ottica della struttura "Città-Territorio" che caratterizza fin dalle origini la nostra città. Non dimentichiamo, tra le altre cose, che il nostro territorio comunale è molto più esteso della Repubblica di San Marino.

Penso che sarebbe anacronistico ripristinare i Comuni annessi nel 1927 mentre, invece, si potrebbe riconoscere e legittimare la loro specificità storica proprio elevando le Delegazioni alla denominazione di "Castelli".

 

Riprendiamo il racconto e, per un attimo, lasciamo la parola a una “Relazione” sulle chiese collegiate dell’Aquila (1824): « Per effetto del Diploma di FEDERICO II. S. Marco e S. Maria di Bagno traslocaron le loro sedi nell' Aquila, la prima dal Villaggio di Pianola, e l’altra dalla Terra di Bagno, e sue Ville. […].»

Ai tempi della fondazione di Aquila, gli abitanti di Piànola costruiscono in città la loro chiesa intitolata a San Marco Evangelista - detta anche San Marco di Piànola (o San Marco di Pianola di Bagno) -; a poca distanza, i "bagnesi" costruiscono la chiesa di San Tussio di Bagno dove trasferiscono le spoglie del Santo eremita che era sepolto nella zona di Bagno, in una chiesa di San Tussio “fuori le mura”.

[Nota]. Le origini di San Tussio, eremita e confessore, sono una questione dibattuta: una versione lo lega a Bagno fin dalla nascita, un'altra invece lo indica come nativo dell'area tra Tussio e Bominaco.

Secondo quest’ultima versione, San Tussio sarebbe nato nella località della “Masseria dei Monaci” (“Masseria di Tussio”), un centro abitato sorto nei pressi di una masseria dei monaci benedettini di Bominaco, e probabile nucleo di origine dell’odierno borgo di Tussio (L’Aquila; Altopiano di “Navelli-Civitaretenga”).

A seconda delle versioni, il nome di San Tussio si legherebbe “a doppio filo” con quello del paese: una versione racconta che il borgo avrebbe preso il nome da San Tussio, un’altra indicherebbe il contrario. Tenendo conto di alcuni dati, storici e toponomastici, sembrerebbe più probabile la seconda versione: San Tussio potrebbe forse essere un “nome parlante” - in particolare un “nome toponomastico” -, poiché deriverebbe dal luogo di nascita del Santo.

 

Chiusa questa parentesi, proseguiamo con la storia della fondazione delle chiese di Bagno dentro le mura. Poco più distante da San Marco e da San Tussio, nasce la chiesa di Santa Maria di Bagno (oggi scomparsa) che sorgeva nella piazza omonima, tra Via San Francesco di Paola e Via al Campo di Fossa; molti aquilani - soprattutto chi ha almeno 50 anni - conoscono questa piazzetta come l'autostazione degli autobus "Pacilli" (confinante appunto con la piazza), azienda privata di trasporti pubblici "scomparsa" con l'istituzione delle autolinee pubbliche regionali, poco più di 40 anni fa.

Per completezza storica ricordiamo - a parte - che, ancora più distante - nelle vicinanze delle Mura - sorse invece il monastero (anch'esso scomparso) di Sant'Andrea di Bagno (o Sant’Andrea delle mura) con il suo orto murato che arrivava fino alle mura civiche: oggi ce lo ricordano Via Sant'Andrea e Piazza Sant'Andrea (quest’ultima però, al momento non è elencata ufficialmente nei viari, come segnalato da alcuni residenti). Aggiungiamo anche che Via Vincenzo De Bartholomaeis in passato si chiamava “Vico (o Via) di Sant'Andrea” perché conduceva al sito del monastero (è la via che oggi collega Piazzale Pasquale Paoli con Via Sant’Andrea). Il tracciato di Vico Sant’Andrea (oggi Via De Bartholomaeis) è visibile anche nella pianta di Aquila del 1753 dove - come oggi - incrocia Via Campo di Fossa, che all’epoca però non proseguiva ancora fino alle mura.

Il monastero di Sant’Andrea venne fondato a partire dal 1368, dopo una donazione di alcuni aquilani di Bagno; fu destinato ad ospitare le Monache Agostiniane che erano sotto la guida dei vicini Padri Agostiniani, quindi potremmo dire che era una “versione femminile” del convento di Sant’Agostino. Sant’Andrea si trovava sempre nel locale di Bagno dentro la città e a poca distanza da Porta di Bagno.

 

Torniamo in Piazza San Marco. La chiesa di San Tussio ebbe una breve durata poiché intorno al 1282 arrivarono i Padri Agostiniani che successivamente acquisirono la chiesa (1295), inglobandola nel complesso del convento di Sant'Agostino; la parrocchia fu poi soppressa (1331) e le spoglie di San Tussio passarono quindi dentro la vicina chiesa di San Marco, dove venne realizzata un'apposita custodia (una nuova sistemazione delle spoglie di San Tussio fu effettuata per volontà di Girolamo Manieri, vescovo di Aquila dal 1818 al 1844, sempre all’interno di San Marco).

Nel 1703, il terremoto distrusse la chiesa di Santa Maria di Bagno; i suoi parrocchiani unirono la loro parrocchia alla chiesa di San Marco che venne invece ricostruita e ristrutturata.

Nel frattempo - da qualche secolo - "era arrivato" anche San Rocco, che all'epoca della fondazione della città non era ancora nato.

Quindi, nell’anno 1750, la chiesa di San Marco "riuniva" idealmente i Santi legati al territorio di Bagno con Pianola: per questo i quattro Santi raffigurati sui campanili sarebbero la "fotografia" di una situazione storica che sostanzialmente è anche quella di oggi. San Marco come titolare principale della chiesa fondata dai "pianolesi", San Tussio e San Raniero legati a Bagno in generale, e San Rocco, divenuto patrono di Piànola.

Manca San Massimo, probabilmente per un motivo molto semplice: da un punto di vista ecclesiastico (e non solo), Civita di Bagno - anche se rientra geograficamente nel territorio di Bagno - rappresenta un centro “autonomo” (detto anche “Civita di San Massimo”) perché la sede della sua Diocesi fu trasferita (traslata) ad Aquila nel 1256, portando il nome di San Massimo alla Cattedrale aquilana; sempre la “Relazione” sulle chiese collegiate aquilane (1824) ci ricorda: « […] Filiani di questa Chiesa [San Marco; n.d.R.] sono tutti Naturali di Bagno, e Pianola, tranne quei di Civita di Bagno, i quali sono soggetti alla Cattedrale […]».

Al titolo di San Massimo è stato poi unito quello della chiesa di San Giorgio, per cui il nostro Duomo ha acquisito il titolo di San Massimo e San Giorgio. Quindi - al giorno d’oggi - San Massimo e San Giorgio meriterebbero di essere rappresentati nelle nicchie ai lati del portale della Cattedrale aquilana.

 

Anche l'onomastica stradale ha tenuto appropriatamente e saggiamente in conto il valore storico della chiesa di San Marco: oltre a “Piazza San Marco” che arriva fin davanti a Sant'Agostino, abbiamo “Via Forcona” (antico nome di Civita di Bagno) che corre sul lato sinistro della chiesa, e “Via dei Neri” (lato destro) che dovrebbe richiamare la Confraternita dei Neri ("Li Negri") con sede nella chiesa di San Marco dal 1582 (per completezza va detto che sul nome "Via dei Neri" esistono anche altre ipotesi; personalmente ho riportato quella che mi sembra più stringente). Il nome di questa Confraternita dovrebbe richiamare l'abito nero che la contraddistingueva: la versione arcaica “Li Negri” - infatti - richiama alla mente l’aggettivo latino maschile “niger” (“nigri”, al plurale) che significa appunto “nero”.

Claudio Crispomonti nella sua Historia (1630 circa) riporta un elenco delle Confraternite aquilane dei suoi tempi, tra cui: «La Pietà, Veste negre, con Cappuccio tondo, a San Marco»; nell’elenco del Crispomonti è l’unica confraternita con veste nera che ha sede in San Marco.

Quindi “La Pietà” di San Marco doveva corrispondere alla Confraternita dei Neri e assolveva diversi compiti, dei quali ci parla sempre Claudio Crispomonti: «La Compagnia della Pietà marita ogni anno tre Zitelle, et veste tredeci Orfanelli, et have cura di assistere, e seppellir quei, che moiono p[er] mano della giustitia».

 

Per concludere questa nostra passeggiata nel tempo e nello spazio, è doveroso ricordare che la chiesa di San Marco normalmente ospita un quadro molto caro alla maggior parte degli aquilani: la Madonna del Popolo Aquilano "Salus Populi Aquilani" (Salvezza del Popolo Aquilano). L'immagine è oggi esposta nella vicina chiesa di Santa Maria del Suffragio (le "Anime Sante"), all'interno della Cappella della Memoria dedicata alle Vittime del sisma del 2009.

Lì, la Madonna del Popolo Aquilano attende di tornare nella sua casa, a San Marco, chiesa dal grande valore storico e architettonico, il cui titolo completo è oggi "San Marco - Santuario della Madonna del Popolo Aquilano".

 

Per questo, chiudiamo “facendo il tifo" per la rinascita di San Marco così come per Santa Maria Paganica (chiesa Capoquarto) e per la nostra Cattedrale (chiesa-madre di tutta la Diocesi); e, naturalmente, per molte altre chiese.

 

 

 Mauro Rosati